Sterne e Foscolo (1948)

W. Binni, Sterne e Foscolo, recensione a Claudio Varese, Linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano (Firenze, Sansoni, 1947), «Lo Spettatore italiano», a. 1°, n. 7, Roma, luglio 1948, pp. 105-107.

Sterne e Foscolo

Nella storia dei rapporti letterari del periodo preromantico e romantico, nel fitto scambio di suggestioni sentimentali e di precise indicazioni tecniche, che arricchisce al di là delle formule storiche quel periodo di eccezionale vitalità e di responsabilità verso il futuro, la testimonianza di Sterne e soprattutto del suo Viaggio sentimentale è stata sempre considerata come uno di quei riferimenti convenzionali ed ineliminabili a cui ci si affida senza una discussione adeguata.

E nella storia stessa del Foscolo la posizione didimea, a volte sopravalutata astrattamente in disegni schematici, non è stata adeguatamente approfondita nelle sue ragioni letterarie e nell’esempio piú preciso del linguaggio sterniano.

Si sa che di fronte ad un Foscolo già tutto nuclearmente formato nell’Ortis, secondo una tesi di monadismo pari per coartazione tendenziosa a quella di una pluralità infinita e puntuale, il rilievo dato alla traduzione del Viaggio e alla formazione di una ideale figura interiore, guida di sentimenti e di linee costruttive, può perfino permettere di contrapporre un Foscolo piú segreto, maturato fuori dagli impulsi alfieriani, in una specie di umorismo sentimentale estremamente civile e delicatamente complesso. Claudio Varese nella sua Vita interiore di Ugo Foscolo (Bologna 1941), in una riuscitissima sistemazione di lettere foscoliane, aveva già indicato, con una certa insistenza (dovuta forse anche all’intento di esposizione e di schema in cui dividere in direzioni essenziali i documenti dell’animo foscoliano) il personaggio di Didimo Chierico di fronte a quello piú tradizionalmente noto e piú tradizionalmente considerato come ritratto essenziale del Foscolo. Già nelle pagine introduttive di quella scelta il critico, pur nella ricerca di una consanguineità dei due Foscoli («Didimo Chierico è fratello di Jacopo Ortis»), aveva portato la sua attenzione piú fresca – e piú tendenziosa – a quel mito interno di gusto e di poetica che si formava intorno all’iniziale figura di Didimo traduttore di Sterne: poetica di «fuoco gentile», di «calore di fiamma lontana», di prosa come comprensione della realtà umana, gusto di un velo sorridente e pensieroso che, al di là della galanteria riscontrata nell’epistolario del periodo londinese, tende a certi risultati di eleganza non lapidaria che si esaltano nella poesia delle Grazie. Il risultato di quel ritratto interiore era: «I due personaggi di Jacopo Ortis e di Didimo Chierico sono stati complementari nella vita di lui: Didimo Chierico ha impedito che l’animo di Ugo Foscolo si logorasse e si bruciasse nel personaggio di Jacopo Ortis».

Conclusione a cui il nuovo saggio di Varese (Linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano, Firenze 1947) apporta un utile correttivo e l’unica conferma sicuramente valida in sede critica, la conferma del linguaggio che attraverso la traduzione di Sterne si precisa nella nuova prosa foscoliana, priva della esuberanza ortisiana e capace di superare certo piú ingenuo classicismo in una modernità vigile e ricca di un’ambigua complessità.

Il Varese riprende il tema delle pagine del ’41, ma lo porta in una sede piú adatta a precisare il valore e il limite del Foscolo didimeo nella sua nascita a contatto dell’esempio sterniano.

La presenza di Sterne è vista sempre come elemento decisivo della vocazione didimea, reagente «che servirà a rifrangere e rifigurare l’io foscoliano», come potente correttivo del carattere foscoliano nei suoi toni piú violenti, quasi compagno e modello concreto che tiene sempre aperta la discussione («Forse per questa ragione le opere sterniane del Foscolo non vengono completamente definite e attuate»). Ma la pagina sterniana, il suo giuoco fra patetico e malizioso, fra intelligenza e sentimento nell’opera piú riuscita, il Viaggio, rispondeva (e qui è il maggiore interesse critico del nuovo saggio del Varese) anche a motivi intensamente letterari, a preoccupazioni di scrittore, impegnato perfino a suo modo in quella modernizzazione della lingua italiana che costituí la preoccupazione settecentesca del Cesarotti e che meglio giustifica l’esemplarità della traduzione: «... per provare l’arrendevolezza della nostra lingua anche nella traduzione di un autore delicatissimo ne’ concetti, terso nell’espressione, stringato nello stile». Ancora una volta alle traduzioni è affidato il compito di audacie che resteranno esemplari e decisive del gusto romantico!

Sí, «esperienza di incivilimento e raffinamento» a cui non mancò la premessa del Parini, ma soprattutto «nostalgia di uno stile riposato che metta ordine nelle immaginazioni discordi e inquiete con apparente semplicità».

Il lavoro del Varese può cosí superare la semplice ricerca del «personaggio» Didimo e appuntarsi al lavoro stilistico del Foscolo, alla sua traduzione, al suo atteggiamento di scrittore nei confronti del nesso sterniano «labile e saldo, difficile e dissimulato, e nello stesso tempo continuato e stretto». Un confronto rapido, ma preciso fra lo stile sterniano e quello del Foscolo nel Viaggio serve ad indicare la fedeltà e l’originalità di un lavoro che dalla traduzione passava alla elaborazione di un proprio metodo stilistico. Da una parte fedeltà alla sintassi sterniana «conservandone, anzi perpetuandone la delicata struttura, viva anche attraverso la punteggiatura di punti esclamativi, di lineette soprattutto, indici di pause, di passaggi e di ritorni del riposatissimo viaggio sintattico», fedeltà all’uso del commento implicito nella narrazione attraverso il discorso indiretto, dall’altra, partendo dalle esigenze di una raffinata traduzione, originalità di ricerche minute, valide non tanto per la resa del testo sterniano quanto per la creazione di un atteggiamento stilistico veramente unico agli inizi dell’800 quando l’eredità del «Caffè» e il gusto neoclassico portano, su esperienze diverse, alla prosa del Berchet e a quella del Giordani.

Ricerche minute che il Varese precisa e cerca di prolungare entro la totale fatica stilistica del Foscolo: «era antico nel Foscolo questo uso del ne’, che si rintraccia per esempio nella lettera del 20 novembre dell’Ortis, nel sonetto Sulla morte del fratello Giovanni, e nel verso ottavo dei Sepolcri, caratteristica preferenza ecc.».

Stabilite le forme della traduzione e la sua natura («l’efficacia della natura e della traduzione dello Sterne non può essere valutata come influenzata o come fonte, ma come un’amicizia geniale, come una forma di collaborazione spirituale») si apriva la parte piú ardua di un simile lavoro: la presenza concreta di questa esperienza cosí lunga e impegnativa nel lavoro ulteriore del Foscolo e soprattutto in quella parte della poesia foscoliana, quella delle Grazie che si porta piú lontana dalle primitive ispirazioni foscoliane e giunge alla sua maturità piú sconcertante, ad un impegno cosí complesso, cosí teso anche da quei nuovi atteggiamenti dell’intelligenza che certo si unificano assai facilmente anche se un po’ miticamente intorno alla figura di Didimo. «Non è sterniana quella dolcezza del dolore e della gioia, quella mescolanza di sorriso e di sospiro che appare sul labbro delle Grazie? “E il sorriso e il sospiro errin sul labbro / delle Grazie, e a chi son fauste e presenti / dolce in core ei s’allegri e dolce gema”».

Limitando lo sternismo foscoliano nelle linee indicate già molto assennatamente dal Momigliano nel suo saggio del 1933 e accettando l’accentuazione del Varese con la consapevolezza che ogni ricerca ha inevitabilmente la sua spinta tendenziosa e che non c’è vita senza estremismo, avremmo tuttavia veramente gradito uno sforzo piú prolungato nella ricerca del Foscolo didimeo di fronte alle Grazie, di fronte a questo classicismo romantico che pone Foscolo accanto alla grandezza di Keats. Il Varese accenna a questa vicinanza e la verifica in qualche nota non essenziale («di sapore sterniano è quella ammirazione verso le donne, che sarà poi trasfigurata nelle Grazie»), ma non si spinge oltre su questa via di poetica e di stile delle Grazie.

Ha invece indicato lo sviluppo del Foscolo verso il suo ultimo periodo inglese e verso la «prosa» del Gazzettino del Bel Mondo.

«Con Didimo il Foscolo è venuto cosí acquistando la capacità tutta interiore della prosa; un’analisi piú minuta, un’attenzione piú umile e piú carezzevole per le cose che circondano l’esistenza degli uomini, una sfumatura di sorriso».

Gusto di prosa e tentazione di romanzi. Ma – fedele alla sua tesi in tono anch’essa sottilmente sterniano – il Varese avverte nella mancanza di un romanzo didimeo la vera natura dello sternismo e la sua funzione nell’opera del Foscolo.

«Lo sternismo, elemento e momento della persona foscoliana, doveva restare un lievito e uno stimolo, una continua apertura psicologica, non concludersi mai in un’opera vasta e perfetta che continuasse la traduzione del Viaggio sentimentale e accompagnasse il Foscolo alla soglia della morte col vagheggiamento di una prosa che rispecchiasse e analizzasse l’uomo non solo nella sua individualità, ma anche nei rapporti, nell’uso e nel logorio della vita civile». Dove di nuovo si sente quasi un abbandono (e un abbandono felice) del critico al fascino dello sternismo.